AGOSTINO VERROCCHI
(attivo a Roma fino al 1636)
Natura morta di frutta Olio su tela, cm 92 x 129


Il dipinto, in buono stato di conservazione, raffigura nel classico formato tipicamente romano della 'tela d'imperatore' una natura morta di frutta, formata da due ceste di uve diverse in secondo piano, davanti alle quali sono disposte disordinatamente, in senso paratattico (con uno sviluppo da sinistra a destra) e a piccoli gruppi fichi, prugne, ciliegie, nespole, pesche, melagrane, cotogne. Il fondo è bruno e avvolgente, la luce, morbida, proviene da sinistra e come accade normalmente nella pittura caravaggesca - è analitica e sintetica allo stesso tempo, ciò che serve a descrivere accuratamente le superfici e a tornire i volumi. Come ho potuto sottolineare di recente citando proprio questo quadro (Cottino, in M. Gregori, a cura di, La natura morta italiana da Caravaggio al Settecento, catalogo della mostra (Firenze), Milano 2003, p. 131), proprio la disposizione paratattica, le evidenti simmetrie e la disposizione della frutta in piccoli gruppi ben distinti confermano che siamo di fronte ad una natura morta arcaica, databile ai primi decenni di sviluppo di questo genere, verso il 1620-30. Gli elementi formali la rendono ascrivibile al pittore romano Agostino Verrocchi, attivo nell'Urbe fino al 1636: i confronti sono convincenti con alcune tra le pochissime opere firmate dall'artista. In particolare con la lavagna di collezione privata firmata 'Augustinus Verrochius' (si veda Cottino, in F. Zeri, a cura di, La natura morta in Italia , Milano 1989, II, fig. 854), in cui l'immagine è strutturata in maniera assolutamente identica: due ceste in secondo piano e piccoli gruppi di frutta della stessa specie in primo piano. Inoltre la fattura delle foglie e dell'uva è del tutto comparabile, nonostante la differenza del supporto. Altre notevoli somiglianze si possono riscontrare con la tela, sempre di collezione privata, ugualmente firmata 'Augustinus Verrochius' (ibid., fig. 859), ad esempio con le melagrane e le cotogne, nonché con la caratteristica stesura delle foglie, i cui bordi sono rialzati da piccoli tocchi luminosi. Esaminando le nature morte non firmate, mi pare che assoluti riscontri si possano rilevare con le due tele rese note dal Veca nel 1985 (Cottino, ibid., figg. 864-865) e con quella che Salerno nel 1984 considerava erroneamente di 'Maestro prossimo al Verrocchi', ma che ho recentemente ricondotto a Verrocchi in prima persona (Cottino, in L'anima e le cose , catalogo della mostra, Fano 2001, p. 59, n. 61). In quest'ultimo quadro gli elementi di confronto sono tali e talmente evidenti che non mette conto elencarli tutti: anzi, si potrebbe pensare ad una medesima collocazione cronologica. Mi pare a questo punto sufficientemente assodata l'autografia del dipinto. Non conosciamo ancora molti dati biografici sul pittore, non citato dalle fonti antiche: a fronte di una trentina di quadri noti, i documenti sono piuttosto scarni (si veda il prezioso contributo di Mina Gregori, in 'Paragone', XXIV, 275, 1973. la studiosa ne ricostruisce la vicenda umana attraverso gli Stati d'Anime della parrocchia romana di San Lorenzo in Lucina tra il 1619 e il 1636, anno in cui bruscamente scompare, ma non ne è registrato il decesso: forse si è semplicemente spostato a Napoli, città in cui si conservano molti suoi quadri). Da quello che oggi ci risulta, Verrocchi inizia con moduli figurativi piuttosto arcaici, strettamente legati al cosiddetto Maestro di Hartford e alla sua cerchia, per poi gradualmente aggiornarsi in senso barocco, ammorbidendo le asprezze della sua prima fase in direzione delle nuove e moderne formule di Michelangelo Cerquozzi, che certamente egli conosceva (all'apertura del testamento di Cerquozzi, nel 1660, era presente il figlio di Verrocchi, Giovanni Battista). Il quadro qui studiato sembra equidistante dai due momenti estremi, per cui potrebbe appartenere alla fase mediana dell'artista